Nel mezzo dell’Emilia profonda c’è un paese che, da solo, probabilmente riassume il senso più vero e autentico di una vicenda collettiva che ha attraverso un secolo di storia politica italiana lasciando segni indelebili nella memoria e nelle coscienze di milioni di donne e uomini. Quel paese si chiama Cavriago, e la vicenda storica è quella del Pci, che qui, sulla via Emilia, a due passi da Reggio, si era fatto stato. “La trionferà”, emozionante viaggio sentimentale che Massimo Zamboni, scrittore e musicista (è stato tra i fondatori e il leader del gruppo punk rock CCCP) ha dedicato al borgo natio, rappresenta, tra tutte le ricostruzioni arrivate sugli scaffali in occasione del centenario di quello che fu “il più grande partito comunista d’Occidente”, l’opera più intensamente poetica e emotivamente coinvolgente. A partire dal titolo, tratto da Bandiera Rossa, l’inno della sinistra italiana scritto da Carlo Tuzzi nel 1908. A Cavriago la bandiera rossa prende (sempre e solo metaforicamente) il posto del Tricolore – peraltro nato a soli 10 chilometri da lì – già nel 1919, quando i “rossi” diventano maggioranza nel turno amministrativo in cui i socialisti conquistano migliaia di municipi in tutta Italia, e la rivoluzione proletaria sembra dietro l’angolo. Uno dei primi atti dell’amministrazione comunale sarà un telegramma di solidarietà alla Russia bolscevica. Quel telegramma, attraversando tutta l’Europa, finirà direttamente sulla scrivania di Lenin, che invano cercherà Cavriago sulla carta geografica. Se ne ricorderà però qualche mese dopo, al congresso di fondazione della Terza Internazionale, citandolo nel suo discorso. Da quel momento, tra il leader della Rivoluzione di Ottobre e il paesino emiliano si sviluppa un rapporto intenso: qualche anno dopo, a Vladimir Iliic verrà assegnata la cittadinanza onoraria e, nel 1970, nella piazza principale, sarà collocato un busto in bronzo che ne riproduce l’ampia fronte stempiata, l’aspetto determinato e forte, il pizzetto copiato da generazioni di aspiranti rivoluzionari. Un monumento all’icona dell’Ottobre Rosso, inaugurato alla presenza di una delegazione del Pcus.
Ma se questo può apparire folklore (e nella narrazione non lo diventa mai, perché Zamboni, con intelligenza e empatia tutte emiliane evita accuratamente di scadere nell’autoreferenzialità un po’ sciocca del colore), ciò che Cavriago sarà per buona parte del Novecento è un piccolo compendio di ciò che sono riusciti a essere i comunisti italiani oltre l’assurda “conventio ad excludendum” che li ha tenuti lontani dal governo: un Paese “altro” dentro il Paese. Alternativo ma mai conflittuale con le regole della democrazia italiana. Un’Italia con regole e riti diversi rispetto all’Italia ufficiale, che, nell’inseguire un orizzonte di lotte e di conquiste da realizzare, organizzava da sé il proprio quotidiano. Il Sol dell’Avvenire costruito pezzo su pezzo attraverso il proprio cinema, la propria balera, la propria coop per gli acquisti, la casa, i servizi essenziali, la propria festa, naturalmente quella de l’Unità. La favola di Cavriago finirà con la liquidazione della politica dentro il magma indistinto di questi anni disadorni. Un processo che, sul crinale tra due secoli, individualizzerà i bisogni e spegnerà le utopie. Ma la fede, quella non crolla: “E – conclude Zamboni – se non saremo noi a vederla trionfare, e se non sarà da noi e avrà altri nomi forse, altri modi, chissà dove, duecento, trecento, mille anni, vedrete: la trionferà”.
Massimo Zamboni, La trionferà, Einaudi, pagg. 227