La chiamavano Génie la matta. Andava nelle fattorie a dare una mano nei lavori. D’inverno tagliava le siepi o la legna, faceva le fascine. Il giovedì, che non c’era scuola, andavo con lei. Raccoglievo i rametti e li mettevo nel mucchio. Eravamo sole. a mezzogiorno faceva un po’ di fuoco. Mi ricordo dei boschi d’inverno, del fuoco, del freddo, di lei e di me nei boschi freddi. In primavera zappava le vigne, i campi di piselli, di fave. Mi ricordo dei tulipani selvatici gialli o rossi nelle vigne. Li coglievo, facevo dei mazzolini gialli e rossi che appassivano all’estremità dei filari. Raccoglievo anche il songino e i porri selvatici, e la sera li mangiavamo. […]
Spesso, piangeva, la sera, davanti al fuoco. I suoi occhi avevano assunto il colore delle lacrime. Diceva: “Non ho avuto niente, io”. Io dicevo: “Hai me”. Ma lei continuava a piangere. Allora credevo che non mi volesse, la seguivo dappertutto. Lei diceva: “Non starmi tra i piedi”. Inès Cagnati, Génie la matta, Adelphi, pagg. 184. Un romanzo anomalo, singolare, superlativo. Non ho letto niente di più lacerante, ossessivo, tenero e brutale negli ultimi tempi. E di sicuro è la magia del linguaggio, di una letteratura dal frasario semplice ma di un’efficacia vorticosa. Una scrittura d’illimitata purezza, essenziale, tagliente da far male. Si legge a fatica, perché bisogna riprendere fiato. È una scrittura che spezza il cuore, le viscere, il corpo intero. Una forma potente dai sentimenti puri e fatali. Una narrazione, quella di Inès Cagnati, dalla mano felice, e che emana poesia da tutte le parti, ma soprattutto sofferenza, amarezza. Dolore. Si è al cospetto di una sensibilità rara, di una vocazione alla narrazione che non è fatta di espedienti o di mera retorica, ma di una padronanza della materia e di una concretezza che arriva dritta alla carne del lettore per trafiggerla nel piacere del silenzio e della pazienza. Come la stessa autrice dice nell’intervista a Laurence Paton che si legge alla fine del libro: In effetti, ho voluto per il mio libro una voce la più possibile neutra, “silenziosa”, che corrispondesse, per così dire, al silenzio di Génie e di Marie. Il romanzo, appunto, è la storia dell’amore lancinante e assoluto di una figlia, Marie, nata da uno stupro, per la madre, Eugénie detta Génie, che ripudiata dalla famiglia e respinta dalla comunità dopo che ha generato una bastarda, si è murata nel silenzio e nella lontanza. Una madre che sa soltanto dirle: “Non starmi tra i piedi”, che raramente la abbraccia; una che tutti in paese bollano come matta e sfruttano facendola lavorare duramente nei campi in cambio di un po’ di frutta o di un pezzo di carne. La narrazione procede attraverso lo sguardo della figlia e del suo amore indefettibile. E tramite una scrittura dove affiorano e si creano man mano le immagini di un mondo, quello interiore e semplice di un universo femminile che è insieme sguardo puro sul mondo e assoluta accettazione dell’esistente nella sua crudezza e ripugnanza. Pregiudizio. Porcheria. Oscenità. Marie subirà la stessa sorte della madre, lo stupro. E da parte della stessa persona. E forse è un’esperienza che la avvicina ancora di più alla madre. L’amore di Marie, infatti, è imperterrito, profondo, naturale. A un tratto appariva lei, e i suoi occhi chiari disperdevano i fantasmi. Io dicevo: “Mamma. Madre mia”. E lei diceva: “ Zitta”. E poi sentivo freddo. Lei veniva a letto, mi teneva stretta per scaldarmi. Mi addormentavo nell’odore latteo del suo sudore. Tuttavia Marie, a suo modo si lega a Pierre. In primavera, quand’ero piccola, mi sdraiavo sotto la grande paulonia della nonna a guardare i grappoli color malva dondolarsi nel cielo piano piano. Me lo ricordo. Sognavo che un uomo mi prendesse tra i rami, come un albero. È arrivato Pierre. Diceva: “Marie. Fiore mio. Ti porterò lontano, sulle dolci isole dove crescono i frangipani. Gli alberi del corallo sono fioriti di rosso e fanno piovere nel vento gocce di sangue. Ti porterò nel giardino dei pompelmi e dormiremo lontano, al fondo delle isole cullate dagli oceani”. Poi una sera arriverà una lettera, una lettera ufficiale, una lettera battuta a macchina, su carta intestata dell’aviazione. Sembra che non ci sia per niente una via di fuga. Tutto deve convergere verso l’unico punto possibile: il destino spietato, il dolore. Cagnati ci racconta una vicenda aspra, amara, inclemente, sullo sfondo di una terra, dove s’intrecciano ferocia e tenerezza, strazio e rancore, lutto e incantamento. La storia nella storia di Rose, la mucca cieca è indicativa. Così come lo spauracchio del manicomio. Eppure, nonostante la crudeltà di un’esistenza in un ambiente ostile e poco propenso alla comprensione e all’empatia se non per interesse, emergono la volontà, la tenacia di una possibilità di salvezza. Un’unione matrimoniale per Génie e lo studio per Marie. “Andrò a studiare di fronte al mare”. E ho scelto La Rochelle per via dell’oceano e di una foto che avevo visto tanto tempo prima, l’assedio di La Rochelle. Ho subito avuto voglia di svegliarla per dirle di restare con me nella vecchia casa, per sempre con me, e ho pianto, perché lei dormiva così lontano nella sua stanchezza. Senza dubbio questo libro è un piccolo capolavoro. Sconvolge la sobrietà di un linguaggio che riesce incredibilmente e con maestria a essere terribile e devastante. Frasi brevi. Secche. Ripetitive. Essenziali. Un tono da strumento monocorde, ma che vibra come se a suonare fosse un’orchestra. Una sensazione di estraniamento, non fosse altro per la novità di una scrittura che imprime alla tragicità degli eventi una sorta di dissolvenza e di meraviglia. Di sorpresa. Non per niente la chiamavano Génie la matta.