Una Spoon River degli antichi Romani, versi che dilatano il tempo antico, lo rendono presente e viceversa, riportano l’attualità in un flusso di vita e morte che non muta e si rinnova. C’è il respiro dei secoli nel libro di poesie di Giovanni Bracco “Urne” (La vita felice, 2021- pagg.97 – fotografie a cura di Graziano Conversano). Tra lirica e archeologia, con versi ispirati alle urne cinerarie romane di Salerno e della Costiera amalfitana, Bracco costruisce un poema che è anche antologia di giorni, collezione di esistenze chiamate a dire dell’attimo che le colse nel flusso del tempo. Il sesto libro di poesie di Bracco, stampato da Arti Grafiche Boccia in occasione dei 60 anni di attività dell’azienda salernitana, ci restituisce la forza dell’archeologia che non è solo “reperti”. In ogni urna c’è una biografia non ancora svelata, dietro ogni iscrizione latina c’è un poema esistenziale che cenere e oblio non possono cancellare. Il poeta, allora, si trasforma in un archeologo al lavoro tra le pietre del tempo. I suoi scavi sono eseguiti con estrema perizia, delicatezza, sensibilità: frammenti, schegge, parole, tracce, sono preziose e fragili. Paziente e lungo è anche il lavoro di ricomposizione di quanto emerge dal pozzo dei secoli: la giustapposizione delle tessere, le parole evanescenti che tornano a farsi corpo, scrittura, voce. “Nel medesimo campo delle urne cinerarie romane della costa d’Amalfi e di Salerno, già studiato dal padre Vittorio per gli aspetti storici e archeologici – scrive nella sua prefazione Mario Mello, professore emerito di Storia romana all’Università di Salerno – Giovanni Bracco, con la sensibilità del poeta, si cimenta sugli aspetti umani: mira a farsi interprete dei sentimenti, a mostrarsi solidale nel dolore che la morte genera”.
Mello sottolinea anche la capacità di Bracco nel raccogliere in maniera sintetica e sincretica la grande mole di cultura latina: “Giovanni chiama in aiuto due giganti della cultura classica, dalle visioni molto diverse sull’oltretomba, quella epicurea ma dubitativa, di Orazio e quella articolata e complessa di Virgilio: tuttavia, senza molto profitto. Ma non demorde. Gli uomini del passato lo chiamano, e lui risponde, senza esitare. Lo fa, dando, per un verso, voce alla propria sensibilità, acuita dall’innata inclinazione a mettersi accanto a chi soffre, per altro verso, liberando il concetto di morte sia dall’abisso d’un totale annullamento, sia dal timore di una condanna a pene senza fine. L’aldilà di Giovanni è, sì, mesto ma non ostile e chiuso, né immemore della vita terrena”. Il libro è l’ideale prosieguo di un lavoro avviato dall’autore nel 2019 con la pubblicazione di quattordici liriche ispirate a urne cinerarie romane della Costiera Amalfitana nella raccolta di poesie Il mare mi ha deposto dalla croce – Mediterraneo. “In quella sede – spiega Bracco nella sua introduzione – ho provato a dar voce ai migranti che sono morti in mare e a qualche figura che riaffiorava da lontano, vittima dei traffici di esseri umani di duemila anni orsono: erano, i più, liberti, schiavi affrancati ai quali era affidata la gestione delle ville e delle aziende agricole e di acquacoltura fra il primo e il secondo secolo dell’Impero romano. Lavoravano, insieme ai servi, per conto dei proprietari che erano, in qualche caso, gli stessi imperatori. Molti di loro erano stati tratti dai mercati degli schiavi in Oriente. Urne è l’esito, in poesia, di una campagna epigrafica condotta nella seconda metà degli anni Settanta da mio padre, Vittorio Bracco, nell’area dell’antica Salernum e confluita in due libri.
In queste liriche ho provato a coniugare i contenuti iconografici (con qualche licenza) e il messaggio testuale, quando questo sia salvo, di trentotto urne, avvalendomi di quegli studi che hanno fatto luce anche su molti aspetti simbolici di oggetti e animali raffigurati nel marmo”. Di grande interesse anche l’indagine, mutuata attraverso il lavoro lirico, sulla visione che avevano della morte e dell’aldilà gli antichi abitanti di Salernum e della Costiera, in una tensione misterica che non è possibile svelare del tutto. “I due maggiori poeti dell’età augustea – ricorda Bracco – vissuti qualche decennio prima, coltivarono visioni opposte: Orazio che fu seguace di Epicuro, non arrivava alla polverizzazione dell’anima col corpo, ma rimase – potremmo dire ‘modernamente’ – dubitativo; Virgilio, invece, prospetta un’articolata visione della vita ultraterrena, dalla suddivisione delle anime, secondo i meriti e le colpe, fino alla metempsicosi”. Non a caso, in una certa tradizione cristiana, che vede in Dante un grande sostenitore, Virgilio è visto come una sorta di precursore, primo annunciatore dell’arrivo del Cristo, quando accenna al misterioso “puer”.
I versi di Bracco entrano in simbiosi l’antica Roma e trasformano le iscrizioni funerarie in dialogo con i posteri, come in “Fratelli di latte”: “Leggi, dunque, che io, Lucio / Lucrezio Alessandro, sfido il tempo / come l’eterna Roma generata / dai gemelli allattati dalla lupa. / Si leva dai torniti candelabri / la fiamma ben nutrita, palpitante / come il legame mio col mio fratello / di latte, Caio Iulio Alessandro, / soldato all’undicesima coorte, / venticinque anni. E come amor di madre / vinse sulla natura della lupa, / vigile, protettiva, nutriente / coi gemelli spauriti, / accovacciati sotto le mammelle, / così possa ammansire eguale amore / la ferocia selvaggia della morte”. Giovanni Bracco, giornalista, capo della redazione di Roma de Il Sole 24 Ore Radiocor, è qui alla sua sesta opera poetica. Integrano i testi le fotografie delle raffigurazioni scultoree, a cura del regista Graziano Conversano, firma di Rai Cultura. Tra i prefatori anche Enzo Boccia, ex presidente di Confindustria.
(Dal Quotidiano del Sud di Salerno in edicola oggi)