Nel romanzo Gli estivi (La nave di Teseo, pp.229) di Luca Ricci, secondo movimento di una quadrilogia sulle stagioni, inaugurata, nel 2018, dagli Autunnali, si dissolvono le scie di un ancora oggi diffuso realismo essiccato, impigrito dall’omologante dettatura della cronaca stinta e screziato di viete smagliature stilistiche, soprattutto là dove si enunciano troppo linearmente quelle psicologie sottili che, delegate a captare i riflessi e i sussurri della vita, richiedono più affilati mezzi di interpretazione . Di contro, si afferma, nelle sue più apprezzabili e avanzate violazioni strutturali e formali, un fronte di scrittori (da Gramigna a Volponi, da Piumini a Maurensig, da Malerba a Benni, a Veronesi, per citare alcuni fra i più valorosi nomi) capaci di sconvolgere le regole di una cementata opacità, le insidiose e tautologiche certezze, le usurate schermaglie di pensiero sguscianti dalle frequentate perimetrie (e periferie) dell’osservazione rituale.
In questo ambito, le innovative proposte si aprono ad esiti magnetici e dissacranti grazie alla conquista di un linguaggio trivellato da un’inesauribile volontà di ricerca e di ri-creazione, allusivo, attrezzato a spezzare i ceppi di una ferrosa copertura semantica e di una standardizzata orizzontalità tematica. È il vincente caso dell’insolito, coraggioso libro di Ricci che, annullato il pericolo di una replicazione di monocordi orditi romanzeschi, grazie pure al tambureggiante susseguirsi di quindici autonomi episodi di oltranzistico spessore, alimenta un minuscolo mondo di inquieta solitudine, spietato, nel quale può presentarsi la figura di una giovanissima donna, «d’improvviso, a tradimento», la notte di San Lorenzo, e divenire un «desiderio» ossessivo di giovinezza perenne, vagheggiato e non espresso dall’io narrante, ma «esaudito» da una stella che l’uomo non «aveva visto cadere».
Dotato di un’«ipersensibilità che si acquisisce solo dopo i cinquant’anni», quest’io, uno scrittore impegnato nella stesura di una storia di cui non riesce a trovare il bandolo, e assediato dall’«esuberanza dozzinale dell’estate» al Circeo, guarda affascinato l’ indifferente sconosciuta che, «ciarliera», cena con un gruppo di amiche. Per lui, seduto accanto alla moglie Ester («due fantaccini dell’amore», destinati sempre più a inaridirsi) si sta trascinando l’«ennesimo dopocena capzioso, fatto di silenzi interrotti appena da borborigmi di frasi». A rapire l’uomo dall’oppressiva consuetudine è quell’apparizione- «incantamento» che scompagina il tempo e i suoi obbligati stampi. Ma che pure, immagine di vento, presto sfiorisce, portando «altri volti, altre fitte al cuore», mentre passano i mesi e arriva la seconda estate, fra equivoci e inattesi risvolti di fatti e «quei giorni invasati che precedono ferragosto». Ancora distanti sono il«pavido» scrittore e la miracolosa presenza dentro la reiterazione meccanica dell’esistere che non fa sconti . La tregua (o incubo?) si apre unicamente proprio in quei sogni «interessanti» che «mettono al riparo dal mondo onirico».
Visionaria, prorompente nel collocare i pressanti motivi nel «terreno del paradosso, cioè quello della letteratura», la pagina tende a liberarsi dei gangli delle soluzioni più ovvie. Sceglie, tentacolare e furtiva, i suoi colpi di teatro, rilancia a più riprese il timbro aforistico e la divagazione estemporanea (sulle scuole di scrittura, semplice «esercizio di nostalgia», e sull’ispirazione degli scrittori; sui critici e sui lettori), scardina ogni ordine logico degli accadimenti, imbastendo un groviglio di agguati e di feroci crudezze, e sempre sul punto di aprire, al vertice di una fantasia o di un dubbio, un nuovo, argomentato spazio metaforico o didascalico dalle liriche seghettature. Nel frattempo, si scompaginano le carte dell’avventura, in attesa della «fine di qualsiasi cosa» che «non può mai essere lieta». Concentrata essenzialmente sulle angosce del protagonista in bilico fra realtà ostile e immaginazione turbinosa, prese di coscienza e rinvii della dibattuta «partita» sentimentale a «data da destinarsi», la narrazione viene così percorsa da sferzate di sollecitazioni eccentriche, specchiate in sequenze paesaggistiche immerse talora in un’atmosfera limbale o velate di tristezze calcinate da un sole «spavaldo» che non permette possibilità di fuga.
Ironico, coinvolto nell’amarezza dell’ininterrotta interrogazione su tutto ciò che lo circonda e ferisce, il personaggio senza approdo, irretito in una relazione «asimmetrica» con la giovane, si muove fra esitazioni, spinte velleitarie, ritorni a uno stato di rinuncia, di perdite e umiliazioni . È la costrizione ad affacciarsi sul vuoto («l’horror vacui della folla romantica» che non regge il confronto con la «massa novecentesca» attiva nella «demolizione dell’amore») e a permettere che possa svanire pure un magico «momento sospeso». Sorride intanto, quest’io automatico e vorticante, condividendo con l’amico Lello (l’ editore che c’è sempre, «anche troppo. Anche a sproposito») la convinzione della fedeltà quale «aspetto disperante della razza umana».
Lo scarto repentino, che accosta la schedatura di eventi alla stupefazione di una sinestesia, l’osservazione capillare di stati d’animo al fermo di un’azione nei lacci di un protocollo, la scoperta della «bellezza quasi catastrofica» di un tramonto al «ripasso esistenziale» di un funerale, costituisce il connotato di pagine in grado di infiltrare ovunque coefficienti di sorpresa. Brillante e chino a raccogliere la spina del «cocente nulla», Ricci, nell’istante in cui assiste al rialzo di una cifra speculativa, non cessa di «sguazzare nelle storie» e di trasformare la morale e la dottrina in una favola : una favola triste, come la vita, pronta ad abolire gli entusiasmi e gli amori che, se «concretizzati», possono essere «vissuti soltanto a patto di non essere più celestiali».