In una recente intervista a Raffaella De Santis Maurizio De Giovanni – parlando del noir, o del “romanzo nero”, così come preferisce chiamarlo – ha dichiarato che tale categoria di genere non ha affatto perso vigore nella letteratura contemporanea. Tutt’altro: non sarebbe infatti sbagliato, per lo scrittore partenopeo, allargare addirittura il campo a tutta la crime fiction, rilevando soprattutto un “trasferimento della sua forza sovversiva nelle emozioni individuali”. Una forza sovversiva delle emozioni individuali assai simile – però con la chiara consapevolezza di non trovarci di fronte ad un romanzo nero – potrebbe essere riconosciuta anche nella trama (e in molti dei personaggi che contribuiscono a tesserla) dell’ultimo libro di De Giovanni, “L’equazione del cuore”.
Dimenticate le riconoscibilissime ambientazioni napoletane – presenti e passate – che fanno da sfondo alle storie a puntate ‘degiovanniane’: non ci sono commissariati, non ci sono i vicoli del centro storico, le piazze con le chiese e le strade che si aprono alle vedute panoramiche della “città distesa” salendo verso quartieri alti del Vomero. La geografia de “L’equazione del cuore” si perimetra, invece, in uno spazio che va da una immaginaria isola del Golfo di Napoli – dal nome quanto mai evocativo, Solchiaro – a una nebbiosa e piccola cittadina del Nord col sottofondo un’aria verdiana, “Caro nome”, che ha il sapore di quella terra “così ostile, così deserta, così fredda”.
E nemmeno si incontrano, nelle pagine di questo nuovo romanzo, poliziotti belli e (un poco) maledetti che potrebbero far pensare ai “bastardi” di Pizzofalcone; non c’è neppure un commissario dallo sguardo triste e innamorato che indaga negli anni della Napoli fascista (proprio come faceva Ricciardi); oppure qualche giovane assistente sociale (sul modello di Mina Settembre) che opera, con l’aiuto del suo affascinante amico-spasimante ginecologo, nel ventre antico della città. Niente di tutto questo.
Il protagonista – Massimo De Gaudio – è un professore di matematica in pensione: vive da solo in una piccola casa sull’isola dopo la morte della moglie Maddalena, dedicandosi principalmente alla sua più grande passione, la pesca. Una vita sempre uguale e sostanzialmente monotona interrotta, di tanto in tanto, da qualche fugace visita estiva della figlia Cristina e del nipote Checco – a cui il nonno dedica le sue lezioni di pesca – che vivono al Nord, nell’anonimo paesino padano. Qui il genero di Massimo, il dottor Luca Petrini, dirige l’azienda di famiglia che, ormai da tre generazioni, rappresenta la principale fonte di lavoro e di sostentamento dell’intera comunità.
Poi, un giorno d’inverno “suonò il telefono nell’alba squarciata. E nulla fu mai più come prima”. La notizia è devastante: in un incidente automobilistico hanno perso la vita la figlia e il genero mentre il piccolo Checco versa in gravissime condizioni. Posata la cornetta, accade una cosa strana: Massimo si sdoppiò: “Un Massimo de Gaudio, restò con i piedi nudi sul gelido pavimento della cucina, la cornetta in mano, a rispondere a monosillabi della voce costernata, imbarazzata, che parlava con accento settentrionale. Un altro si avviò lentamente a prendere la vecchia borsa impolverata. L’armadio e la riempì diligentemente di indumenti, biancheria e spazzolino”.
Accade perciò che il protagonista – e il suo doppio – si ritrovino, all’improvviso, catapultati nel microcosmo del paesino settentrionale: ad uno dei due toccherà di cercare di ricostruire – con la piccola concessione alla ‘vena’ giallo-noir della scrittura di De Giovanni della comparsa del commissario meridionale Caruso che ‘suggerisce’ una possibile pista d’indagine al professore –quanto tragicamente accaduto. Da quell’incontro, la prima traccia narrativa arriverà, attraverso scoperte poco casuali e qualche imprevisto, alla soluzione della vicenda ‘esterna’ alla storia. L’alter ego di Massimo scoprirà invece – proprio in virtù di quelle forze sovversive degli affetti individuali citati in premessa – un’altra storia: ambientata nel mondo emotivo, intimo e personale nel quale vivevano, a sua colpevole insaputa, la figlia e il nipote. E, infine, il cinico e lucido professore si troverà di fronte al corpicino intubato e sedato di Checco, per parlargli come non aveva mai fatto prima. Raccontando sé stesso e quello che – anche in funzione del suo animo matematico e razionale – adesso vede e interpreta in una luce nuova: “Sai che penso, Signore? Che in qualche modo tu lo capisci. Perché un bambino dovrebbe essere irrequieto, Giusto? Non dico adesso, che sei sedato e ti tengono addormentato, ma quando ti siedi dietro di me la mattina sugli scogli vicino al molo e aspetti, secondo me anche tu ti senti immerso in qualcosa di più grande, in qualcosa di caotico che, tuttavia, interpreta una regola invisibile. Come se ci fosse una specie di armonia, una musica: Noi matematici cerchiamo l’armonia dei numeri e in fondo arriviamo alla musica, forse un bambino sente subito la musica, prima di passare per i numeri. Tu la sentivi, ne sono sicuro. Sta di fatto che tu passi le ore alle mie spalle, fermo e zitto e buono come adesso, ma sveglio e attento, perché poi quando esce un pesciolino dall’acqua attaccato all’amo, scatti in piedi, Signor Petrini Francesco di anni 9, detto Checco, senza bisogno che io ti chiami”.