Nel libro è contenuto il Libro. Ignara,/la regina racconta al re una storia/che loro non ricordano: la loro./Travolti dal tumulto di magie/passate arrivano a dimenticare/chi sono. E ricominciano a sognare./Quarta metafora è infine una mappa/del Tempo, la regione indefinita/di quanto si misura in linee d’ombra/e nel perpetuo logorio dei marmi/e nei passi delle generazioni./Tutto. La voce e l’eco. Quel che guardano/le due opposte facce del Bifronte,/mondi d’argento e mondi d’oro rosso/e l’infinita voglia delle stelle./Non si può leggere, dicono gli arabi,/fino alla fine il Libro delle Notti./Le Notti sono il Tempo, che non dorme./Tu leggi ancora, mentre muore il giorno,/Shahrazad narrerà anche la tua storia. Jorge Luis Borges, Storia della notte, Adelphi, pagg. 126. Libro tra i più celestiali e immensi e intimi di Borges. Non fosse altro che in queste liriche che non sono sonetti né poesie o che in queste prose che non sono racconti né storie e nemmeno elenchi, – i tipici costrutti di cui Borges si serve per dar forma alla sua scrittura – egli plasma l’eternità del libro dalla Notte. E da qui la sua opera enorme: la Biblioteca, inaudito e ostinato sforzo dell’uomo di dare un significato alla vita attraverso le parole. E, ancora, metafora di una memoria vasta e incomprensibile. Allegoria, figura e simbolo di un enigma irrisolvibile. Labirinto. Torre di Babele. Sogno. Universo. Silenzio. Notte delle Notti. Libro della dismisura dell’ombra. Libro. Niente più che una cosa tra le cose. E libro in cui il viso dell’oscurità non si piega, anzi “è da solo e nessuno è nello specchio”.
La cecità di Borges è l’offuscamento del mondo. È il guizzo, il sobbalzo, la tenacia delle parole che slegano, o attestano il gioco oscuro dell’indecifrabile del destino umano. Con alta voce e cadenzata, sillaba/frammenti di poemi antichi tenta/variazioni nei verbi e negli epiteti/e bene o male scrive questi versi. Un’ode al libro. Non un panegirico ma qualcosa di più modesto ma tanto intimo quanto non si era mai letto in Borges. Storia della notte è un libro dedicato a Lei, a Maria Kodama, volto o figura di un unico prodigio infinito. I crepuscoli e le generazioni./I giorni senza il giorno del principio./La freschezza dell’acqua nella gola/di Adamo. L’ordinato Paradiso./L’occhio che indaga e scruta nella tenebra./I lupi che si accoppiano nell’alba. […] La voce d’usignolo in Danimarca./la scrupolosa riga del calligrafo./Il volto del suicida nello specchio./La giocata del baro. L’oro avido./Le forme delle nubi nel deserto./Ogni arabesco del caleidoscopio./Ogni rimorso pianto in ogni lacrima./Sono servite tutte queste cose/perché le nostre mani si incontrassero. Una lunga e imperscrutabile, ma anche incantevole e spietata catena di cause che, come scrive Francesco Fava, curatore di questo piccolo gioiello della letteratura mondiale, può ora convergere verso un luminoso punto di fuga, incarnato dalla donna amata. Fingerò che altri esistano./È menzogna./Tu solamente, sei./Tu mia sventura/e mia ventura, tu incessante e pura. Un Borges, quindi, che si rivela, che apre il suo libro interno attraverso i suoi cardini, i suoi assilli, i suoi autori prediletti: Cervantes, Shakespeare, Milton, Eraclito, Virgilio, Omero. Lui che scrive di non voler essere chi è, e sognare l’altro. Lui che non è neanche polvere, ma che tra sogno e veglia tesse le trame tra libro e opere senza conoscere il suo nome, forse pagina casuale di un paladino analfabeta o di un simulacro di Maometto. O di un sogno sognato da chissà chi. Da chissà quali occhi o tenebre. Da chissà quale sognatore di farfalle. O di letterature. – Shakespeare l’ha detto. Sono quel che sopravvive ai futili e ai codardi. – Ecco che allora la notte, l’evanescenza, la proiezione onoraria del buio, la forma di un’intima ragione d’essere, diventa vertigine e il Libro originale sgomento di verità abissali. Spazio siderale. Eternità. Paradosso. Fandonia. Cura. Capacità di accumulare e tonificare parole e miti. Inesauribile anima tremante delle cose che avrebbero potuto e che non sono state. “Things that might have been”. Una lirica, sempre nella forma dell’elencazione, a dir poco struggente. Un finale inatteso. Epigrafico. Il mondo senza ruota o senza rosa./Il giudizio su Shakespeare di John Donne./L’altro corno dell’Unicorno./L’uccello favoloso dell’Irlanda, che è in due/luoghi nello stesso tempo./Il figlio che non ho avuto. Storia della notte, ci avverte il curatore, è il terzultimo volume di versi pubblicato da Borges e si colloca in un triennio di particolare fecondità, chiude, infatti, nel 1977, un ravvicinato trittico di raccolte poetiche aperto nel 1975 da La rosa profonda, e proseguito nel 1976 con La moneta di ferro. Un periodo senz’altro felice per la letteratura, dove Borges esprime in cadenze semplici e insuperabili, il meglio della sua poesia, regalandoci brandelli di poetica di una semplicità insuperabile. L’Epilogo di Storia della notte ne è un esempio di eccezionale grazia e spessore. Una pagina tra le più belle che la letteratura di tutti i tempi possa offrirci. Varrebbe la pena tenere questo libro soltanto per questa breve chiusa da cui voglio estrarre solo un leggero frammento: Un volume di versi altro non è che una successione di esercizi di magia. Il modesto incantatore fa quel che può con i suoi modesti mezzi. Una connotazione mal riuscita, un accento sbagliato, una sfumatura, possono rompere l’incantesimo. Whitehead ha denunciato la fallacia del dizionario perfetto: supporre che per ogni cosa ci sia una parola. Lavoriamo a tentoni. L’universo è fluido e mutevole; il linguaggio, rigido. Niente, allora, più che un Libro, tentativo infinito. Notte imperitura e indifesa.
Jorge Luis Borges, Storia della notte, Adelphi, pagg. 126