Esistono persone che riescono a vivere per come vogliono e senza perdere l’innocenza, riescono a trovarsi nel posto giusto nel momento in cui, loro stesse, sono predisposte a un incontro importante, è il caso di Cetta Petrollo, bibliotecaria e poetessa – le due cose sono in strettissima correlazione e si autoalimentano, il rigore della ricerca, del deposito della conoscenza libraria e la rigorosa ricerca della parola adatta sono madre e figlia che ben si comprendono – moglie di Elio Pagliarani, poeta simbolo di una generazione e traghettatore di quella stessa generazione dal mondo possibile della poesia a un mondo più giusto.
Un incontro fortunato e felice il loro, un incontro che ha permesso a tutti e due di potersi esprimere liberamente, un incontro che ha dato alla loro attività creativa profondità e tenuta.
Di questa storia privata, che è pubblica e culturale, la Petrollo ci narra nel suo libro “Margutta 70”, libro edito da Zona Contemporanea, non di nuova pubblicazione, il libro è del 2018 ma questo non cambia l’interesse per quanto la Petrollo scrive.
È questa storia un documento fresco, non incistato dal tempo, interessante proprio perché è ancora memoria giovane, un documento che più di ogni altro ci spiega cosa volesse dire fare cultura in Italia dagli anni ‘70, quelli della contestazione e della scoperta di una vita più libera, almeno per chi come la Petrollo e Pagliarani erano parte di una comunità, una comunità che proprio perché autenticamente intellettuale era soprattutto una comunità umana. Il periodo si conclude negli anni ’90, la fine delle “magnifiche sorti e progressive”, l’inizio dell’affermazione della vera cultura di massa in Italia, una fine, quella di quel mondo, che ci porta dritti dritti alla contemporanea situazione così distante dalla loro, da quella della Petrollo, di Pagliarani e del loro cenacolo amicale.
Partiamo del titolo. Via Margutta 70 era l’indirizzo dello studio di Pagliarani, studio che era anche l’abitazione del poeta, e che una volta divenuto compagno e poi marito della Petrollo divenne anche l’indirizzo della bibliotecaria/poetessa.
Lo sguardo della Petrollo, mentre ci descrive la vita in quegli anni in via Margutta, e con Pagliarani, è sognante. Il libro è una fiaba, a suo modo, e il modo di raccontare il dentro e il fuori la vita in via Margutta ha il sapore delle fiabe.
È il compimento di un sogno che si è realizzato da sé, e del sogno continua a mantenere la tenacia, la consistenza e anche la dolcezza.
Non c’è mai in questo libro inquietudine, quella che oggi è sempre presente e sottotraccia nei libri, qui non esiste nemmeno la paura del domani, e se precarietà esistenziale affiora e c’è, e ben nascosta nelle maglie della solidarietà, della rete fitta di amicizie, amicizie condite da passioni politiche e interessi sociali.
Il concetto oggi diffuso e imperante che: la cultura non dia da mangiare, nemmeno affiora i protagonisti del libro e i loro compagni di merende, addirittura nel momento in cui si lavorava o si prospettava per ognuno un lavoro di ricerca si pensava, immediatamente, in quale modo poi ognuno potesse essere pagato in misura dall’impegno profuso.
Nemmeno i passaggi al Monte dei Pegni sono descritti come momenti di sconfitta. Facevano parte della scelta di vivere per gli altri, per dare agli altri la capacità di guardare al mondo in maniera autentica, senza i paraocchi falsi del bisogno, paraocchi che soprattutto i poeti sanno di dovere togliere ai propri lettori, e quei passaggi facevano parte delle regole del gioco che loro avevano scelto di condurre.
E così tutte le distorsioni sociali e culturali vengono narrate in maniera piana, senza che le distorsioni scalfiggano la realtà, anzi la loro narrazione rende più forte e saldo l’impegno letterario e di vita comune.
È quindi il memoir della Petrollo un libro di impegno civile, dove la parte polemica, se di polemica si può parlare, è riservata alla sciatteria estrema del mondo del lavoro, al di lei vagabondare tra scuole e biblioteche prive di civiltà, e da lì, poi, questa necessità di difendere e accudire i libri, a dispetto dell’ottusità e dei colleghi e dei sindacati, al punto di raccontare di come il suo sdegno fosse talmente sanguigno da portare Pagliarani a telefonare a Ronchey, Ministro per i Beni Culturali nei governi Amato e Ciampi, per fargli comprendere la difficoltà quotidiana di chi, vivendo in mezzo ai libri, doveva accettare la totale mancanza di senso di chi dei libri ignorava ogni cosa, eppure avrebbe dovuto conoscerlo questo senso perché quei libri era chiamato, per lavoro, a custodire.
In un mondo come il nostro, mondo in cui il gossip e il rosa ci asfissiano con il loro gas letale, come scrive Ceronetti, ad avercele di coppie e di storie così, allora sì che i difensori della famiglia avrebbero pane per i loro denti perché di due che si tengono per mano a pane e cultura, con un bicchiere di Vedova, come i coniugi Pagliarani chiamavano il Veuve Clicquot, ne abbiamo un grande bisogno, così delle loro storie.